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La delegazione creativa nell’arte: tra genio, bottega e postmodernità

Nel mondo dell’arte, l’immagine dell’artista solitario che plasma con le proprie mani ogni dettaglio
dell’opera è un mito tanto romantico quanto parziale. La delegazione creativa, ovvero l’affidamento
dell’esecuzione dell’opera, o di parte di essa, ad assistenti, collaboratori o tecnici, attraversa la
storia dell’arte, sollevando interrogativi su autorialità, autenticità e valore.


Dal Rinascimento alle botteghe barocche
Nel Rinascimento, delegare era prassi diffusa. Le grandi botteghe funzionavano come laboratori
collettivi in cui il maestro concepiva l’opera, ma la realizzazione veniva spesso affidata a garzoni o
allievi. Sandro Botticelli, ad esempio, si circondava di assistenti che contribuivano a opere attribuite
solo a lui. Lo stesso accadeva con Tiziano, che nella maturità lasciava ampie porzioni delle sue tele
agli aiuti. L’artista ideava, correggeva, rifiniva: il pensiero restava suo, anche se la mano a volte no.
Il critico d’arte Michael Baxandall, nel suo Painting and Experience in Fifteenth Century Italy,
sottolinea che il valore di un dipinto rinascimentale era legato più al “concept” dell’opera e al
prestigio del maestro, che alla paternità manuale esclusiva. L’opera era un risultato collettivo, ma il
nome in calce era uno solo.


Canova, Rubens e la forza del disegno
Antonio Canova, massimo scultore neoclassico, raramente toccava il marmo grezzo. Delegava a
scalpellini fidati la sbozzatura delle sue opere, intervenendo direttamente solo nella rifinitura delle
superfici e nei dettagli espressivi. Così anche Peter Paul Rubens, pittore prolifico, si avvaleva di una
vasta officina di pittori che, su suoi disegni o bozzetti, completavano le grandi tele.
Questa pratica non destava scandalo. Come affermava Giorgio Vasari nelle sue Vite, l’artista era
prima di tutto un “inventore”, un “architetto dell’immagine”, e il disegno era ciò che definiva la
vera autorialità dell’opera.


La rivoluzione concettuale: Duchamp, Warhol e Hirst
Il Novecento, con il concettualismo, ha estremizzato la delegazione. Marcel Duchamp dichiarò che
“è l’idea che fa l’opera”, non la sua esecuzione. Il suo Fountain (1917), un orinatoio firmato “R.
Mutt”, sovverte il principio dell’arte come produzione manuale. L’opera non è fatta, ma scelta.
Andy Warhol portò il concetto al parossismo con la sua Factory, dove decine di assistenti
serigrafavano tele in serie, da lui supervisionate. “Non voglio essere solo un artista. Voglio essere
una macchina”, scrisse Warhol. Il critico Arthur Danto lo difese sostenendo che la vera arte, nel suo
caso, consisteva nell’intuizione, nel sistema simbolico messo in atto, non nella produzione fisica.
Negli anni 2000, Damien Hirst ha dichiarato candidamente di non aver mai toccato molti dei suoi
celebri spot paintings. “È irrilevante chi tiene in mano il pennello”, ha detto, attirando l’ira di alcuni
critici. Julian Spalding, nel suo Con Art, ha accusato Hirst e soci di “trasformare l’arte in un brand”
in cui l’autenticità è sacrificata al mercato.


La critica contemporanea: tra provocazione e sistema
Oggi, la delegazione creativa è spesso vista come parte integrante del processo artistico
contemporaneo. La curatrice Claire Bishop parla di “autorialità diffusa” e riconosce che l’arte
postduchampiana sfida l’idea di mano e materia, proponendo modelli produttivi più fluidi, talvolta
aziendali.
Tuttavia, permangono le polemiche. Quando nel 2012 Jeff Koons, artista statunitense, fu criticato
per non realizzare le sue sculture in acciaio inox lucido, si difese sostenendo che la sua arte è “un
progetto concettuale complesso” che richiede competenze ingegneristiche e artigianali specializzate.
Ma critici come Robert Hughes hanno definito la sua opera “pompieristica e vacua”, accusandolo di
svendere l’arte al lusso.


Il caso di Maurizio Cattelan rappresenta un ulteriore capitolo nella riflessione sull’autorialità e la
delega. Celebre per opere provocatorie come “Comedian” (la banana attaccata al muro con nastro
adesivo), Cattelan ha spesso rinunciato alla realizzazione materiale delle sue opere, affidandosi a
tecnici, artigiani e installatori. L’ideazione concettuale è tutta sua, ma la costruzione è il risultato di
una filiera operativa professionale. In molte interviste, l’artista ha affermato: “Io non faccio nulla,
delego tutto, eppure la responsabilità è mia”. Il suo lavoro diventa dunque un gesto, un’azione
simbolica, più che un oggetto fisico.
E naturalmente qui sorgono delle domande spontanee: “Chi è il fautore dell’opera d’arte: l’ideatore
o colui che la realizza?”, “Quanta competenza tecnica è richiesta per definire un’opera d’arte tale?”.
Queste domande costituiscono un grande interrogativo per il secondo Novecento e per il XXI
secolo, a cui non è semplice porre una risposta.


Conclusione: idea, mano, delega
La delegazione creativa non è un’anomalia: è una costante nella storia dell’arte. Dalle botteghe
rinascimentali alle multinazionali dell’arte contemporanea, ciò che cambia è il rapporto tra idea e
realizzazione, tra firma e contenuto.
L’autorialità, oggi, non coincide più con la manualità, ma con l’intenzione, il sistema di pensiero, il
dispositivo estetico e culturale. Come scrisse il professore di storia dell’arte e filosofo tedesco Boris
Groys: “Nel mondo contemporaneo, l’artista è l’autore di un messaggio più che di un oggetto”. E
chi lo realizza, spesso, non ne intacca la potenza.
Noi di Artistinct, in linea con le correnti e con gli artisti sopra citati, siamo convinti che la delega
per la realizzazione delle opere ad artigiani e tecnici non sia un elemento sminuente per l’ideatore,
ma che invece lo ponga sullo stesso piano di un’artista a 360°, ovvero colui che realizza dal
principio al termine un’opera d’arte in tutte le sue fasi. A partire dagli anni 60 e 70 del secolo
scorso, assistiamo sempre di più alla concettualizzazione dell’arte, ovvero il fenomeno per cui viene
posto l’accento sul concetto o l’idea alla base dell’opera d’arte piuttosto che sulla sua forma fisica o
estetica

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Commenti

_Impossible_Art_Universe360_ avatar
@peepso_user_605(_Impossible_Art_Universe360_)
Veramente ben espresso il concetto dello stile usato da alti nomi in cima al sistema arte mondiale, chiamato "the Art of Not Making" metodo procedurale di creare con la propria produttività artistica un sistema detto "Industry" per massificare e aumentare la produzione commerciale grazie ad un sistema che da bottega rinascimentale diventa art-studio con molti assistenti e poco dopo una vera e propria azienda strutturata come un brand del lusso.